Sunday, May 25, 2014

Forbidden

Andres solleva gli occhi nello specchio rovinato, nella nave che lo riporta fuori da Polaris. L'immagine che gli torna indietro è un volto bianco, stanco. La camicia è sporca di sangue, esce lento ma inesorabile dalla carne aperta sul collo. Il marchio di Santo. Le dita passano piano tra i capelli corti e disordinati. Un nodo gli serra la gola, lo costringe a voltare gli occhi. Non è il dolore fisico, più che sopportabile. Non è la vanità. E' l'umiliazione. La sensazione che a falciargli i capelli e gettarli a terra in segno di disprezzo, a tenerlo fermo scavandogli una lettera nella carne come agli schiavi, non sia stato Santo. Sia stato Lucian, attraverso le mani di Santo.

Mashhad
Cammina lungo il corridoio della Casa di Agatha, le volte alte del soffitto rimandano il colore delle luci calde, fuori la notte calda dell'estate è riempita dagli odori dolci della frutta, dei fiori. Lui tiene lo sguardo dritto davanti a sè. E' giovane. Ha poco più di vent'anni. I capelli morbidi e lucidi gli fluttuano intorno mentre si muove tranquillo ed elegante verso la propria stanza. I suoi, non sono gli unici passi che rimbombano contro il porticato. Un uomo lo segue. Lo conosce di nome, di fama. Il giovane Principe di Mashhad. Lui sa di essere seguito, eppure non si volta. Ha danzato ad una festa, quella notte. Mentre si muoveva, mentre si torceva su se stesso, i loro occhi si sono incrociati per la prima volta. Per qualche ragione, non sono più riusciti a districarli, come se si fossero incastrati a vicenda nella tempesta tumultuosa delle loro anime. Tra le teste, tra i corpi, tra i presenti a quella festa, si sono sempre ritrovati. Incrociati, agganciati. Fino alla fine. Fino a quando il giovane accompagnatore non si è congedato e il giovane avvocato è scivolato fuori dal ricevimento alle sue spalle, come un segugio.
Ora Lucian Farahani cammina dietro di lui, lo segue attraverso i corridoi rimanendogli a dieci metri di distanza, consapevole che lui ne è consapevole. Consapevole che la strada che conduce agli alloggi della Casa l'hanno sbagliata almeno tre volte e che Andres sta semplicemente camminando senza meta, con il passo di chi sa esattamente dove sta andando, per continuare quel gioco. Per continuare quella caccia e quella fuga che non hanno molto di reale, che sono un rituale di seduzione bruciante quanto attento ad occhi indiscreti. E' Andres a interromperlo. In mezzo al porticato est. Senza ragione apparente, si ferma. Non si volta, si ferma e basta. Si lascia raggiungere. Lucian quando lui smette di camminare esita solo un istante, poi prosegue. Lo avvicina. Si muove verso di lui, arrivandogli alle spalle, accostandosi. Si ferma quando è a qualche decina di centimetri da lui ed è come se avesse corso. Andres non si volta, Lucian non può toccarlo per farglielo fare, non certo senza il suo permesso. C'è un muro invisibile tra loro che brucia sotto il calore della voce di Farahani che gli viene lasciata contro il collo, contro l'orecchio, da quella distanza. Con la fretta, la foga e l'urgenza di chi rischia tutto e vuole altrettanto.
"Ti ho guardato per tutta la sera." Sono state le prime parole che Lucian gli ha rivolto. Nella vita. In quel corridoio. Le prime delle molte che si sono scambiati in dieci anni. Mentre le diceva era come se premesse sulle redini, come i cavalli che si impennano nel deserto, dal collo lucido e forte.
"Lo so."
"Ti voglio." Sibilato con la bramosia aristocratica che hanno certi uomini per loro natura, abituati a prendersi ciò che desiderano.
Andres solo a quel punto si era voltato. Gli aveva lasciato colare addosso gli occhi azzurri, liquidi. Le labbra che trattenevano a fatica un sogghigno.
"Allora dimostramelo, Shazade."
Da quel giorno, per mesi, Lucian Farahani usò tutti i mezzi in suo potere, per vincere la più piccola delle sue attenzioni.

Horyzon, 25 Maggio 2516
La stanza di Andres a Capital City è elegante, ordinata. Troppo per non essere impersonale. Ci sono nell'arredamento, nei colori, nei tessuti, i disperati tentativi di imitare Mashhad in una città troppo grigia e troppo fredda per avvicinarsi anche lontanamente alle sue cupole, alla sua bellezza. Andres Norum ha i capelli tenuti all'indietro, schiacciati contro il cranio da del gel che cerca di nascondere la realtà delle cose. Sul retro del collo, esposto, si vede la cicatrice a forma di G che Santo gli ha inciso a forza, solcata dai punti di sutura. Tra le mani, Kamil gli scivola addosso, sibilando e facendo oscillare la testa nera, squamata, nel vuoto. Lo maneggia come se maneggiasse cristallo, non un serpente, con una piega di amore stanco negli occhi blu. Lucian Farahani cammina lungo il corridoio fuori dalla sua stanza, accompagnato da una giovane ragazza della Casa. Dentro di sè, combatte il timore delle conseguenze. Viene annunciato. Viene fatto entrare. La porta viene richiusa alle loro spalle. Andres si volta verso di lui. Lucian lo guarda, la figura snella, stanca, con il serpente tra le mani. Anche il serpente fissa il Console. Negli occhi azzurri del Saint non c'è calore, c'è un silenzio fondo come un pozzo, una formalità inadatta a loro.
"Sono contento che tu abbia fatto un buon viaggio."
Lucian inizia a muoversi verso di lui. Lentamente. Come se temesse la morte.
"Una volta lasciato lo spazioporto di Maracay alle spalle..." Il Console sembra essere sul punto di continuare, ma forse si accorge di quanto siano futili quelle precisazioni. Fa scivolare gli occhi sul serpente nero che si arrampica tra le dita del suo amante, con un brivido, prima che Andres lo faccia scivolare nel cesto tornando a rivolgerglisi.
"Hai visto i miei nuovi bambini?" Un cenno pigro verso i contenitori delle due serpi. 
"Li ho chiamati Ain e Kamil, come i personaggi di quella leggenda di Agatha sul ragazzo che iniziava una nuova civiltà da solo."
Lucian non lo fa finire.
"I'm sorry." Interrompe le parole, lo schiaccia fuori con un mormorio. Sono parole che non ha mai detto prima. Riempiono il silenzio come un colpo di cannone. 
Andres lo guarda avvicinarsi. 
Soffoca dentro di sè un sussulto, un tuffo al cuore che non soffoca la sua indignazione. Ma la sente ribollire nel petto, tramutarsi in una fierezza che ha l'odore del sangue, della foresta e della roccia della sua terra.
Il mento ha un guizzo verso l'alto mentre gli pianta gli occhi addosso.
"You should be." Un mormorio secco come una condanna. La voce, dopo, gli trema di passione cupa, turbata. "In dieci anni non mi sono mai sentito cosí.. usato da te."
Farahani affronta quelle parole come un'esecuzione, come un soldato davanti ad un plotone d'esecuzione, ma privo della stessa sicurezza di aver agito nel migliore dei modi.  "Lo capisco. Non era mia intenzione." Fa un altro passo, lieve, sembra quasi fluttuare verso Andres strisciando la punta dei piedi contro il suolo. Come i penitenti. Inchiodato al suolo dagli occhi azzurri di Norum. "Credo di aver dimenticato il fatto che non abbiamo segreti. Ho infranto un patto. E sono conscio della gravità della cosa.  Ho valutato male la situazione. Non ti ho reso partecipe delle mie supposizioni, pensando di avere il problema sotto controllo. Non è stato così." Ammette duro, irrigidendo la mascella. "Ma non succederà ancora."

Gli occhi di suo padre lo guardano da un giaciglio di pellicce. Lui è avvolto in una pelle di lupo, ha dieci anni, si scalda vicino al fuoco. L'Ouroboros, al suo polso, riluce troppo grande per lui. L'uomo sta intagliando del legno con un pugnale. Si ferma. Inspira, prima di parlare. "Tu porti il sangue di guerrieri, Andres. Non dimenticarlo."

Andres osserva Lucian. Questa volta è lui a muoversi. Arrivandogli di fronte. Passandogli accanto. Poi dietro. Gli sta girando intorno, tenendogli gli occhi fissi addosso. Come un predatore sinuoso, lento. Lucian è un perno intorno a cui gravita. Combatte con la voglia di urlare che gli scuote il petto. La voce è calma, bassa e vibrante. 
"Ne sono sicuro, che non accadrà mai più. Credo che non sia completamente colpa tua, Lucian. Devo aver sbagliato anche io, da qualche parte. Devo averti fatto credere che ti puoi permettere di essere con me quello che sei con gli altri, quando sappiamo benissimo entrambi che non è cosí." Continua a muoversi intorno a lui come i satelliti, la voce si riduce ad un mormorio privato, un sibilo roco, offeso come possono esserlo solo i condottieri. "Io ti conosco come nessun altro, Lucian. Quando è successo che hai creduto che essere un re per gli uomini ti desse il permesso di usarmi come una banale pedina?
Lucian parla in arabo. Parla un arabo antico, mentre gli risponde, annaspa nel deserto del suo disappunto. 
"Non sono neanche più un re per gli uomini, Andres. Non sono neanche più un principe." Shazade. "E' la frustrazione dell'esilio che mi ha fatto agire impazientemente."
Andres si ferma quando gli è di fianco, ne osserva il profilo. Il volto si protende verso di lui, gli lascia addosso un sibilo ben scandito. "Come ti ho rivolto i miei favori per tutta la mia vita, posso allo stesso modo decidere di riprendermeli. E' bene che lo tieni a mente."
"Lo so. Come ti ho già detto. Non prendo la tua lealtà per scontata."
Un istante dopo, Andres gli è di fronte.
Un temporale nei suoi occhi si gonfia come un esercito. Lui, davanti a tutti, solleva la spada, la punta verso l'orizzonte. Un ventre di acqua fredda investe Shazade e lo fa annaspare, annegare. Andres apre la bocca e parla. La sua voce è carica di una passione brutale, che gli scintilla nel petto come tamburi di battaglia.
"Tu smetti di essere re quando smetti di comportarti come tale, Console. Quando inizi a perderti nelle pieghe del tuo stesso ego. Ho sempre pensato che la tua caparbietà ti avrebbe reso la vita difficile, ma quella che rischia di distruggerti è la tua arroganza. Quindi smetti di pensare al luogo che ti hanno precluso, e inizia a pensare alle porte che ti sono state aperte davanti.
Lucian sente bruciare la verità addosso, cerca di negarla con uno sbuffo irrisorio e stizzito, che gli costa caro. Quello che segue, che esce dalla bocca di Andres, è una dichiarazione ferma, calda come gli incendi, gli occhi gli rimangono addosso con una fermezza accecante. 
"Cercherò di convincere la Weyland a far funzionare le loro spie e farmi avere delle informazioni su questo Santo. Quello che ci immaginavamo come un vecchio spietato narcotrafficante è una cosa ben più pericolosa di cosí. E' una puttana gelosa. Che per qualche ragione ti ha preso di mira, e ha consumato il suo desiderio di umiliare me. Da questo momento, Lucian, non è più solo con te che è in guerra. A costo di vedere la sua testa su una picca, voglio mettere bene in chiaro che non sono la tua, di puttana. Non sono la tua tela. Se mi scrivi addosso un messaggio, io mi sento in dovere di scrivere la fine del capitolo."
Lucian non riesce a dire nulla. Di colpo, viene colto da un calore che lo consola. Da una fiamma che da qualche parte gli scioglie il cuore, in una desolazione che è il più dissetante dei ristori. Solo allora ha il coraggio di sollevare gli occhi sui capelli di Andres, u quell'onore reciso a metà. Lo fa con un coraggio che costerebbe la vista a chiunque altro. Dura più di quanto sia permesso, meno di quanto potrebbe fare davvero arrabbiare lo Xinshou. Lentamente l'Agarajil scioglie il nodo delle sue mani, le allunga con lentezza verso la fronte di Andres, come a chiedere tacitamente un suo permesso per accarezzargli le tempie. "Lo dici come se non conoscessi la misura della mia risoluzione."
Andres si sente addosso gli occhi di Lucian. Trema sotto il tocco delle sue dita. Trema perchè i capelli che gli hanno tagliato portavano intrecciati il ricordo delle sue mani, degli ansimi che ci ha lasciato colare dentro troppe volte per ricordarle. Ricordi troppo intimi perchè possano attraversare la mente di chiunque altro che non sia loro due. Ma non gli concede più che qualche breve tocco prima di distogliere il capo, di sottrarsi alle sue dita. "Il mio supporto te lo do perchè credo che tu possa davvero fare del bene al Verse. Perchè credo che sotto il nemico che sei per te stesso a volte, tu abbia davvero le doti per essere il portatore di un cambiamento di cui questo dannato universo ha bisogno. Non per regalarti un nuovo giocattolo." Fissa gli occhi in quelli di Lucian, prima di scandire una messa in guardia che raffredda la stanza.
"Don't you ever dare to betray me again."
Le maniche della tunica di Lucian coprono la pelle che per un solo istante si raggela in un manto d'oca.
L'Agarajil realizza che deve pagare una pena, e quella pena prevede che tutto ciò che ormai dava per garantito, dopo dieci anni, ora dovrà lottare per ottenerlo. Compreso il contatto fisico. Che è come se gli stesse davanti per la prima volta, nei corridoi della Shouye di Mashhad. Quando Andres parla di nuovo, lo fa con la voce bassa che diventa più schiettamente privata. "Mi aspetto che tu mi dimostri che non mi dai per scontato. Faccio chiamare Celia, perchè ti faccia accompagnare all'uscita."

"Ti voglio."
"Allora dimostramelo, Shazade."

Lucian si inchina davanti a lui, in segno di rispetto, poi si allontana come si conviene ad un uomo che si impiega per dimostrarsi degno. Andres rimane da solo. Si sente stanco, fragile, ha voglia di piangere. Viene assalito dal terrore dei mille occhi che lo scruteranno fuori da quella stanza. Il pubblico, la Casa stessa. Occhi che scandaglieranno il suo corpo e lo troveranno mancante. Che additeranno i suoi capelli, che additeranno la cicatrice. Bisbiglieranno. Rideranno della sua ingenuità. Disprezzeranno ciò che vedono. Viene assalito dalla sensazione che il suo corpo sia sempre di più un oggetto, un campo di battaglia, una mangiatoia a cui si nutrono troppe bocche. Troppi sguardi. Cerca il cortex con le dita, cerca Melanie. 

Il tempo è una cosa buffa. Si contrae e si distende, come le scaglie dei rettili.




Tuesday, May 6, 2014

Helm of Awe

Raonoke, 2516

Il pianeta è vergine. Coperto di foreste fertili, che odorano di muschio e terra. Fuori dal confine di Takoma Springs si estendono come un oceano verde. Cosí fitto che i raggi di luce filtrano a fatica tra il fogliame. Disegnano linee luminose dense come fumo. Andres si è svegliato all'alba. Ha dormito poche ore. La camera d'albergo è spartana, accanto a lui il corpo nudo di Farahani giace addormentato in un intreccio possessivo con il suo. Lo tiene fermo anche nel sonno. La notte appena passata è stata una battuta di caccia. Si è lasciato braccare come le cerve, si è lasciato affondare i denti nel collo. Ha lasciato che Lucian lo divorasse come fuoco, che combattesse le sue paure sul suo corpo, nel suo corpo. Lui è il campo di battaglia in cui ha lasciato che il suo re vincesse, fosse padrone e condottiero, dimenticasse il timore.  La notte passata gli ha lasciato addosso un sentimento liquido, misto, che gli scivola nel petto mentre lo guarda dormire. Mentre accarezza lievemente la superficie della sua pelle, seguendo la linea delle spalle. Un languore scivoloso e palpitante, ma anche una sensazione brutale di vuoto che gli riempie il ventre. Una malinconia che somiglia ad un presagio, ad una condanna. Lo guarda dormire, consapevole che Farahani non dorme mai, se non dopo essersi consumato tra le sue braccia. Custodiscono a vicenda i loro segreti. Andres Norum custodisce il sonno del Console, il Console custodisce la sua passione. La fonte tremenda e vibrante delle sue emozioni.
Con un fruscio, senza svegliarlo, scivola fuori dalla presa delle sue braccia, uscendo dal letto come un brandello di tessuto lasciato cadere a terra. Si avvicina alla finestra, gli occhi azzurri si focalizzano sul profilo degli alberi. Oltre le case. Sul profilo della foresta. Rimane un istante immobile, poi si veste. Si rimette la tunica, si rimette i pantaloni. Esce dalla stanza, va a recuperare un pugnale. Una lama di metallo. La va a prendere dai propri bagagli. E' una lama grezza, di quelle adatte a sgozzare le bestie. Se la allaccia alla cintura, lascia la Steakhouse che il sole sta appena sorgendo.

Ansimi.
"Non ti permetterò di avere paura. La paura non è per te. Il mio re non ha paura. Il mio re è un leone. Ora dimostramelo. Dimostrami che sai prenderti ciò che vuoi, ciò che ti appartiene."

Mentre cammina nel bosco gli si gonfia il petto. I capelli sono sciolti sulle spalle, annodati dal vento e dai rami. Mentre si muove tra gli alberi ha la fierezza che si addice a chiunque porti l'Ouroboros. Il suono primordiale della libertà e della forza gli preme nei muscoli lunghi. Per un istante, sente la sferzata di un richiamo. Sente il contatto con gli Antenati premergli addosso. E' conscio del suo scopo, sa di dover fare una cosa prima di pensare a quale strategia sussurrare alle orecchie del re nel mondo degli uomini. Prima, deve contrattare con un mondo diverso. Cammina senza una meta, ma con una meta sicura. Conosce la sua strada senza saperla, lascia che siano gli dei a guidarlo. Senza fretta, con la pazienza assorta degli animali selvatici, fino a che non si trova davanti ad un masso. Una parete di roccia nel fitto del bosco. Il masso ha una forma regolare, torreggia proiettato verso il cielo. Come una spada, una torre. Di fronte al masso, si ferma. Gli occhi rivolti verso la sommità. Si china, raccoglie un sasso chiaro, friabile. Si avvicina alla superficie di roccia, assorto in una decisione tribale. Premendo con le dita, con i muscoli, disegna un simbolo sul masso. Regolare, come un sole fatto da raggi geometrici. Fatto di forconi. Lo fa con grande concentrazione, prima di lasciar cadere il sasso a terra. Poi, si lascia cadere in ginocchio di fronte ad esso. Estrae il coltello dalla cintura, aprendo la mano sinistra e posandoci la lama in mezzo. Richiude la mano, stringendola intorno al pugnale con forza, gli occhi fissi sul simbolo. Il metallo gli penetra a fondo nella carne. Lo fa tremare, le labbra strette, serrate, senza che gli sfugga un gemito. Fiotti di sangue denso gli lasciano la mano, gocciolano sul muschio, sulla tunica, sulle felci. Prende aria, nel momento in cui sfila il coltello in un ultimo affondo dal suono sibilante. La mano è squarciata. Lui la avvicina al masso, ce la appoggia, lascia che il sangue scorra sulla pietra. Quando parla lo fa nella lingua gorgogliante della sua gente.

"Da qui io vi supplico, dei e antenati, di riunirvi di fronte a me. Sono il vostro figlio, il vostro seme, ho una richiesta per voi. Il vostro onore vi costringe a rispettarla. Ho fede nelle vostre vie. Vi offro il sangue in offerta, come simbolo di quello che verrà. Perchè è il mio sangue che vi chiedo di versare. Non il suo. E' la mia vita che vi chiedo di usare per la sua grandezza. Alla vostra grandezza e alla sua grandezza io mi offro, sia la strada in salita, irta di rocce o di pericoli, o in discesa. Egli ha paura della morte. Io non la temo. La mia vita è un'offerta al vostro volere e alla vostra furia. Scatenatela contro i nostri nemici. Fate che io sia l'agnello che verrà sacrificato affinchè il destino si compia come deve compiersi. Ascoltate la mia preghiera."

La fronte la lascia ricadere contro la roccia. Quando la risolleva, ha il volto sporco del proprio sangue. In quell'istante, comprende cosa lo faccia sentire diverso dagli altri. Da Lars. Da Daphne. Da Brendan. Da Capital City. Forse persino da Agatha.
La fonda, violenta vasca della sua dedizione è indipendente dalla sua nozione dei propri scopi. I fragili, costanti momenti in cui sente di essere vuoto, sono gli stessi in cui realizza di essersi votato interamente ad un destino che non conosce interamente, ma che sente come si sentono le vocazioni. Con la stessa viscerale brutalità dell'amore. Senza mai prenderne il nome. Quella che viene dalle terre di pietra e sangue, e che nasconde nel fondo dell'animo, come si nascondono i segreti.
Trascurata.