Tuesday, May 6, 2014

Helm of Awe

Raonoke, 2516

Il pianeta è vergine. Coperto di foreste fertili, che odorano di muschio e terra. Fuori dal confine di Takoma Springs si estendono come un oceano verde. Cosí fitto che i raggi di luce filtrano a fatica tra il fogliame. Disegnano linee luminose dense come fumo. Andres si è svegliato all'alba. Ha dormito poche ore. La camera d'albergo è spartana, accanto a lui il corpo nudo di Farahani giace addormentato in un intreccio possessivo con il suo. Lo tiene fermo anche nel sonno. La notte appena passata è stata una battuta di caccia. Si è lasciato braccare come le cerve, si è lasciato affondare i denti nel collo. Ha lasciato che Lucian lo divorasse come fuoco, che combattesse le sue paure sul suo corpo, nel suo corpo. Lui è il campo di battaglia in cui ha lasciato che il suo re vincesse, fosse padrone e condottiero, dimenticasse il timore.  La notte passata gli ha lasciato addosso un sentimento liquido, misto, che gli scivola nel petto mentre lo guarda dormire. Mentre accarezza lievemente la superficie della sua pelle, seguendo la linea delle spalle. Un languore scivoloso e palpitante, ma anche una sensazione brutale di vuoto che gli riempie il ventre. Una malinconia che somiglia ad un presagio, ad una condanna. Lo guarda dormire, consapevole che Farahani non dorme mai, se non dopo essersi consumato tra le sue braccia. Custodiscono a vicenda i loro segreti. Andres Norum custodisce il sonno del Console, il Console custodisce la sua passione. La fonte tremenda e vibrante delle sue emozioni.
Con un fruscio, senza svegliarlo, scivola fuori dalla presa delle sue braccia, uscendo dal letto come un brandello di tessuto lasciato cadere a terra. Si avvicina alla finestra, gli occhi azzurri si focalizzano sul profilo degli alberi. Oltre le case. Sul profilo della foresta. Rimane un istante immobile, poi si veste. Si rimette la tunica, si rimette i pantaloni. Esce dalla stanza, va a recuperare un pugnale. Una lama di metallo. La va a prendere dai propri bagagli. E' una lama grezza, di quelle adatte a sgozzare le bestie. Se la allaccia alla cintura, lascia la Steakhouse che il sole sta appena sorgendo.

Ansimi.
"Non ti permetterò di avere paura. La paura non è per te. Il mio re non ha paura. Il mio re è un leone. Ora dimostramelo. Dimostrami che sai prenderti ciò che vuoi, ciò che ti appartiene."

Mentre cammina nel bosco gli si gonfia il petto. I capelli sono sciolti sulle spalle, annodati dal vento e dai rami. Mentre si muove tra gli alberi ha la fierezza che si addice a chiunque porti l'Ouroboros. Il suono primordiale della libertà e della forza gli preme nei muscoli lunghi. Per un istante, sente la sferzata di un richiamo. Sente il contatto con gli Antenati premergli addosso. E' conscio del suo scopo, sa di dover fare una cosa prima di pensare a quale strategia sussurrare alle orecchie del re nel mondo degli uomini. Prima, deve contrattare con un mondo diverso. Cammina senza una meta, ma con una meta sicura. Conosce la sua strada senza saperla, lascia che siano gli dei a guidarlo. Senza fretta, con la pazienza assorta degli animali selvatici, fino a che non si trova davanti ad un masso. Una parete di roccia nel fitto del bosco. Il masso ha una forma regolare, torreggia proiettato verso il cielo. Come una spada, una torre. Di fronte al masso, si ferma. Gli occhi rivolti verso la sommità. Si china, raccoglie un sasso chiaro, friabile. Si avvicina alla superficie di roccia, assorto in una decisione tribale. Premendo con le dita, con i muscoli, disegna un simbolo sul masso. Regolare, come un sole fatto da raggi geometrici. Fatto di forconi. Lo fa con grande concentrazione, prima di lasciar cadere il sasso a terra. Poi, si lascia cadere in ginocchio di fronte ad esso. Estrae il coltello dalla cintura, aprendo la mano sinistra e posandoci la lama in mezzo. Richiude la mano, stringendola intorno al pugnale con forza, gli occhi fissi sul simbolo. Il metallo gli penetra a fondo nella carne. Lo fa tremare, le labbra strette, serrate, senza che gli sfugga un gemito. Fiotti di sangue denso gli lasciano la mano, gocciolano sul muschio, sulla tunica, sulle felci. Prende aria, nel momento in cui sfila il coltello in un ultimo affondo dal suono sibilante. La mano è squarciata. Lui la avvicina al masso, ce la appoggia, lascia che il sangue scorra sulla pietra. Quando parla lo fa nella lingua gorgogliante della sua gente.

"Da qui io vi supplico, dei e antenati, di riunirvi di fronte a me. Sono il vostro figlio, il vostro seme, ho una richiesta per voi. Il vostro onore vi costringe a rispettarla. Ho fede nelle vostre vie. Vi offro il sangue in offerta, come simbolo di quello che verrà. Perchè è il mio sangue che vi chiedo di versare. Non il suo. E' la mia vita che vi chiedo di usare per la sua grandezza. Alla vostra grandezza e alla sua grandezza io mi offro, sia la strada in salita, irta di rocce o di pericoli, o in discesa. Egli ha paura della morte. Io non la temo. La mia vita è un'offerta al vostro volere e alla vostra furia. Scatenatela contro i nostri nemici. Fate che io sia l'agnello che verrà sacrificato affinchè il destino si compia come deve compiersi. Ascoltate la mia preghiera."

La fronte la lascia ricadere contro la roccia. Quando la risolleva, ha il volto sporco del proprio sangue. In quell'istante, comprende cosa lo faccia sentire diverso dagli altri. Da Lars. Da Daphne. Da Brendan. Da Capital City. Forse persino da Agatha.
La fonda, violenta vasca della sua dedizione è indipendente dalla sua nozione dei propri scopi. I fragili, costanti momenti in cui sente di essere vuoto, sono gli stessi in cui realizza di essersi votato interamente ad un destino che non conosce interamente, ma che sente come si sentono le vocazioni. Con la stessa viscerale brutalità dell'amore. Senza mai prenderne il nome. Quella che viene dalle terre di pietra e sangue, e che nasconde nel fondo dell'animo, come si nascondono i segreti.
Trascurata.

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