Monday, September 1, 2014

Ouroboros

La stanza di Gray è avvolta nell'oscurità. Ci si è arrotolato dentro come le bestie ferite nella tana. Uno dei loro cani, il meticcio, per qualche ragione si è piazzato davanti alla porta nel momento in cui l'ha chiusa. Si è sdraiato davanti all'uscio, come un guardiano. Lui non lo sa. Lui è sdraiato nel letto ampio, il corpo magro perso lí dentro come in un lago. Dorme, gli occhi chiusi vibrano, il petto si alza e si abbassa in un moto regolare, spossato. Tutto, nell'appartamento, dorme. La città fuori è un brusio lontano, ovattato dal buio della notte. Non si accorge del fruscio, lo scuotersi lieve delle lenzuola mentre la creatura si arrampica strisciando sul letto. Un serpente di circa due metri di lunghezza si muove avvolgendosi in spire tra il lino. Ha occhi gialli come lo zolfo. Si contrae ritmicamente muovendosi silenzioso lungo le sue gambe, sfiorando il corpo sottile dell'uomo. Le ciglia dello Yiji fremono solo appena più intensamente, cambia lievemente posizione. Il serpente è arrivato al petto, si solleva sovrastandolo con il capo triangolare, osservandone il volto pallido. Aspetta pazientemente che il resto del corpo sinuoso e freddo completi il percorso che lo porta ad arrotolare mollemente una spira intorno al collo del Saint e iniziare a stringere. Lentamente, ma inesorabilmente, con la lingua che sibila veloce nel buio della stanza. E' nel momento in cui la stretta diventa una morsa abbastanza ferrea da fargli mancare l'aria, che gli occhi azzurri si spalancano all'improvviso nel buio, pieni di orrore. Il corpo in apnea si inarca in uno spasmo strozzato. Paura, carenza di ossigeno, la vertigine degli occhi gialli del grosso serpente che lo fissano. Ha una reazione confusa, istintiva, mentre inizia una lotta selvatica del corpo debole per liberarsi della stretta. Le dita cercano di aggrapparsi al corpo lucido e immobile della bestia, urla per svegliare Elian nell'altra stanza, ma si scopre privo di voce. Sfiancata dalla presa del rettile sulla sua gola. Si dibatte, a malapena sente la voce che si insinua nella stanza.

"Enough."

Un ordine pacato. Una voce roca, profonda. Sembra provenire dalle viscere stesse della terra. Nel momento stesso in cui viene detta quella parola, il serpente obbedisce allentando la presa. La testa oscilla nel buio mentre si ritrae. Il corpo di Andres annaspa tra le lenzuola, si slancia fuori dal letto con la fretta scomposta del terrore. I piedi posano sul terreno, indietreggia malfermo con gli occhi puntati sul rettile arrotolato nel suo letto, che continua a fissarlo. Ma la voce parla di nuovo.

"On your knees." 

Anche questo è un ordine, ma Andres capisce con qualche istante di ritardo che non è diretto al serpente, è diretto a lui. Lo capisce perchè il suo corpo esegue senza che lui abbia alcun controllo su di esso, come un pupazzo. Le ginocchia perdono forza, completamente. Ogni arto, ogni parte del suo corpo viene svuotata dalla forza necessaria a sorreggerlo. Si accascia in ginocchio a terra, a carponi, i capelli lunghi, sciolti, scivolano a penzoloni nel vuoto mentre gli occhi rimangono rivolti a terra, spalancati. Non riesce a sollevarli, come se qualcuno gli tenesse la testa ferma, bloccata verso il basso. Una forza esterna a lui. Ma i suoi sensi sono attivi. Sono anzi incredibilmente attivi, espansi. Al punto che riesce a percepire ogni singolo filamento di tessuto sfregare contro quelli accanto, mentre qualcuno inizia a muoversi lentamente verso di lui. Ha di colpo la consapevolezza di non percepire dei passi, ma di percepire un movimento lento, costante. Qualcuno si muove in avanti, ma non cammina. Semplicemente, si sposta. Il cuore nel petto gli batte cosí forte che ha paura di sentirlo esplodere. Gli scivola in gola, ha le vertigini. Solo quando la presenza è a meno di un metro da lui, gli viene dato il permesso di muovere la testa. La presa invisibile si allenta, lui fa schizzare lo guardo verso l'alto. A torreggiare sopra di lui, è la sagoma nera, scura, di Uddar, lo Sciamano. Il demone che lo ha cresciuto nelle foreste di Snow Shelter. Uddar non ha un volto, non lo ha mai avuto. Nessuno lo ha mai visto. E' perennemente coperto dal tessuto nero, grezzo, del cappuccio della sua ampia tunica. Tutto ciò che ricorda, è ciò che anche ora è visibile. L'abito nero che lo avvolge completamente, portandosi dietro l'odore acre di pino, fumo di brace, pelo di animali. Lo soffoca. Le mani nodose, pallide, avvolte intorno al bastone cerimoniale, che tintinna di amuleti in osso e corno. Una bocca priva di età, bianca, grinzuta. Piegata in una smorfia inumana, violacea. Uddar non vede mai il sole. Uddar non vede nulla, è cieco, eppure vede ogni cosa. I ricordi della sua infanzia iniziano ad investirlo, rimasti chiusi per decenni in una giara che non osava spezzare. Nessuno sa quanti anni abbia Uddar. Gli occhi rimangono spalancati sull'apparizione in un orrore reverenziale. Il corpo ancora privo di energie.


"..Uddar.." Lo mormora pieno di stupore. "...How.. Com'è.. Possibile? E' un sogno.."
"Lo è? Un tempo non avresti posto quesiti, Winterflame."

Non riesce a ribattere, paralizzato, schiacciato dall'energia che gli scivola intorno, addosso. Cola su di lui come nebbia. Uddar parla, ma le sue labbra non si muovono.

"Stai combattendo una guerra che non puoi vincere."

Le parole gli arrivano come una condanna. Apre la bocca per ribattere, il fiato affannato, mentre piega di nuovo il capo in reverenza.

"..Lo so. Non posso salvarlo. Non posso salvare nessuno. I lost. Cerco di fare la cosa giusta, ma non vedo altro che distruzione. And I can't.. I can't go on."
"Non sto parlando di Lucian Farahani. Nor about this Verse."

Andres solleva gli occhi, senza capire. Improvvisamente privo di appigli di fronte al tono secco della voce antica che gli entra nella testa. Non sa come rispondere. Uddar prosegue, esalando un respiro che non è fiato ma vento freddo, che gli smuove i capelli.

"La guerra che ti ostini a combattere contro ciò che sei. Sei diventato presuntuoso. Hai perso chiarezza di visione con gli anni. You denied what the Gods gave you. This war, is not a war you can win. You accept what you are, or it will kill you. It's already happening. Stai morendo, anche in questo momento."
"..Non capisco..." 

Un'ammissione che esala con le labbra schiuse. Uddar si piega, si avvicina a lui con il volto serpentino, nascosto dall'ombra. Per la prima volta ha la sensazione di intravedere un occhio bianco, privo di pupilla. Ma lo terrorizza troppo da permettergli di guardare di nuovo. Uddar parla vicino al suo viso, questa volta le labbra si muovono. Scandisce le parole sibilando.

"Ou-ro'bo'ros. You can see. They gave you the eyes to see. You must use them. You are them. They are you. This is your destiny: you will watch this world burn. Take it, or die."

Cerca disperatamente di muoversi, ma ogni fibra della sua carne è svuotata da ogni forza, inchiodata in un fissismo contro cui non ha potere. Il sibilo disperato che lascia contro Uddar è come un guaito.

"Io non voglio questo potere. Why me? Non lo voglio. Who are them?"

Uddar si raddrizza. Torna eretto come una torre, stringendo le labbra in una fessura.

"Non è una scelta che spetta a te. Tu hai provato a dimenticare loro, ma loro non hanno dimenticato te. They always come back and take what they own. Their flesh and blood."

Andres prova a parlare. A urlare. Ma una coltre nera gli scivola addosso, lo avvolge come un colpo di maglio. Per qualche ragione, nella sua mente iniziano a scorrere volti come una cascata. Persone. Visi. Occhi. Lucian è tra loro, per un istante. Ma anche Lee. Anche Marshall, anche i volti duri di pietra di Cortes e degli altri, seduti nella cambusa della nave. Anche Lars. Anche il candore di Serafel. Anche Daphne. Ogni volto che ha visto nella vita, dal giorno che è nato. Ogni persona che ha incontrato, lo investono in una sequenza senza tempo eppure velocissima. Infinita. Riesce a carpire distintamente il volto di sua madre.

Quando riapre gli occhi è steso sul pavimento della stanza di Gray, madido di sudore freddo. Debole. La stanza è deserta. Il cane meticcio, fuori dalla porta, guaisce e abbaia come un forsennato, le unghie graffiano contro l'uscio. La bestia sta cercando di attirare l'attenzione di qualcuno. Sente una luce accendersi, da qualche parte nell'appartamento. I passi di qualcuno nel piccolo corridoio.



Sunday, June 22, 2014

Windows

Tornato nella stanza lo spettacolo è lo stesso che costella la sua memoria negli ultimi dieci anni. Il letto matrimoniale con le lenzuola di lino fresco, sfatte. Le pale del ventilatore che cercano di regalare una parvenza di frescura all'estate profumata di Masshad. Girano sul soffitto, in un ronzio ritmico e instabile che sembra prendersi gioco di lui. Fuori dalla finestra i minareti delle Moschee gemelle si stagliano nelle prime luci della sera. Si lascia cadere seduto sul letto. Valuta realmente l'idea di pregare. Gli occhi scivolano al rosario islamico che ciondola pigro dal comodino. Una fitta gli attraversa il petto mentre realizza che è il rosario di Lucian. Ha un gesto improvviso. Violento. Il braccio scatta verso le perle, le afferra, in un solo gesto teso, vivido come le corde di violino, si alza in piedi e si torce scagliandolo verso lo specchio della stanza. Un rumore di vetro infranto si contorce nel silenzio della pensione come una cascata di pugnali. In un battito di ciglia, la sua frustrazione si sta sfogando indiscriminatamente contro tutta la stanza. La stessa stanza in cui riecheggiano anni di gemiti, di sorrisi, di fiato soffiato. Di bugie, compromessi. Catene e costrizioni. Di abitudine. Di gelosia soffocata. Le dita arpionano le lenzuola, quando non trovano più nulla da spaccare, le scagliano violentemente giù dalla finestra aperta. Perplesse grida e risate in arabo si sollevano dalla strada sottostante scroscianti, nel vedere il tessuto che svolazza e si abbatte sulle loro teste. Lui non si affaccia per paura di venire visto. In un pudore improvviso che lo ancora con le spalle al muro. Si lascia scivolare contro la parete, per un tempo indefinito non si muove. Ripercorre mentalmente le ore passate nascosto dietro la moschea tra i fiori di ibisco. Le ripercorre un numero indefinito di volte, i confini tra ricordi e fantasia iniziano a confondersi. La voce di Lucian e la sua bocca contro la propria si mescolano al suo inchino formale, poi lentamente diventano un insieme indefinito di immagini. Alcune reali, altre no. Interrompe il silenzio muovendosi con un fruscio, facendo scivolare stancamente la mano sul proprio corpo in una lunga carezza. La lascia finire oltre il bordo dei pantaloni con un sospiro arreso, stanco, che si mescola ad un brivido di piacere. In gola gli monta una tristezza calma, mentre li slaccia.

Dopo un orgasmo e una doccia il crepuscolo è diventato sera. E' diventato notte. Le luci di Masshad risplendono come gioielli. Lui fuma alla finestra in mezzo alla devastazione della camera da letto. Improvvisamente gli è diventata stretta. Si divide tra il bisogno di esplodere e quello più vago di sprofondare. Affondare è diventato un moto cosí costante che inizia a sentirsi prudere addosso un'indefinito bisogno di dibattersi. Di lasciarsi andare. Decide che se dovesse passare altri dieci minuti in quella camera probabilmente perderebbe la testa, si lancerebbe dalla finestra come le lenzuola. Spegne la sigaretta, si alza. Si riveste, senza troppa cura. I capelli castani si sono asciugati all'aria calda della notte. Esce dalla pensione e si spinge a fondo attraverso i vicoli della città. Li conosce come le sue tasche. Cammina con le mani nelle tasche oltre il bazaar, gira dentro, imbocca una via costellata di piccoli locali dove gli uomini e le donne giocano a tabla e fumano. Oltrepassa un paio di locali, fuori i ragazzi e le ragazze ridano, gridano. La vitalità nervosa della città lo inghiotte mentre raggiunge uno dei quartieri più artistici. Tra i molti locali, in uno dei vicoli si trova un bar con un'insegna di neon rosso che recita "Raksit Raksit!". Non è un bar qualsiasi. Ci si infila dentro prendendo aria, riempiendosi i polmoni dell'odore di fumo e liquore dolciastro che impregna le pareti e i tavolini. Filodiffusa, si sente della musica jazz cantata in arabo. Sono classici di Agatha. Da dietro le spalle, sente una voce calda e inconfondibile ripetere le parole della canzone.

".. Oh quanto è bello, quanto è bello il mio amore. Quanto è bello il mio amore, è più bello di un fiore in inverno."

Dita lunghe, delicate e curate gli si infilano sfarfallanti tra i capelli mentre Ikraam gli passa accanto e gli si porta di fronte nella bellezza svolazzante dei suoi vestiti. Il corpo, un pò troppo mascolino per essere quello di una donna, non pare risentire minimamente della forma massiccia, si muove con la dolcezza teatrale di una diva di Cineteatro. Gli strappa un sorriso nostalgico, affettuoso, sentire la zaffata di profumo dolciastro che lei si porta dietro.

"Andres Norum, sei un figlio di puttana. Non ti perdonerei se non fossi tanto bello. Sono mesi e mesi che non ti fai vedere, non ti fai sentire, non chiami. Che c'è, a Capital City non c'avete la rete cortex? o adesso sei troppo importante per i tuoi vecchi amici?"

"Mi dispiace. Ho avuto dei problemi."

"Di alcuni ho letto. Sono contenta che non sei sparito anche tu. A quanto pare Koroleva ha troppa paura di me per torcerti un capello."

La dichiarazione gli strappa una risata che non gli cancella la tristezza dallo sguardo. Si affievolisce. Ikraam diventa improvvisamente seria, pensierosa. Lo studia.

"Siediti. Hai l'aria di qualcuno che ha bisogno di bere. Parecchio."

Di colpo, si rende conto di accogliere quelle parole con un sollievo incommensurabile. Annuisce, si lascia cadere su uno sgabello, davanti al bancone. Ikraam invece ci gira intorno, si porta dietro ad esso e recupera un bicchiere e un paio di bottiglie. Inizia a mescolare uno dei suoi drink, dal contenuto ambiguo. Nessuno fa mai domande.

"Che cosa ti succede?"

Lui apre la bocca per rispondere. Invece poi la richiude. Sente gli occhi riempirsi di lacrime. E' costretto a portare una mano alla bocca, cercare di trattenerle. Scuote la testa, cercando il viso dell'amica. Incontra un paio di occhi troppo truccati, che si piegano in un istante improvviso di realizzazione, di consapevolezza.

"Oh santo cazzo."

Un mormorio. Rimane immobile per diversi lunghi momenti, poi inizia a scuotere lo shaker con tutta la forza massiccia dei bicipiti da uomo, stretta in un Sari rosso fuoco. Finisce la preparazione senza dire nulla, con la fretta di chi improvvisamente ha bisogno di quel drink più di quello che gli sta di fronte. Finisce che ne versa due bicchieri. Uno lo allunga verso Andres, l'altro lo solleva. "Alla goccia." Dichiara, prima di rovesciarselo in gola con un gesto deciso. Lui la imita, piegando il collo lungo all'indietro e bevendolo d'un fiato. Strizza gli occhi sotto il bruciore dell'alcol in gola. Prende aria, spingendo di nuovo il bicchiere verso di lei, implicitamente chiedendo che venga riempito di nuovo. Lei obbedisce, ma gli tiene gli occhi addosso.

"Tesoro, mi dispiace tanto. Ma non è poi una tragedia, no? Insomma. Il mare è pieno di pesci. Pieno di bei ragazzi molto meno ingombranti di lui. Molto più facili da nascondere di quell'uomo. Pieno di amanti che puoi cacciare sotto al tappeto quando ti stufi, quando diventa troppo complicato da gestire. Lu.." Si blocca. Stava per dire un nome, ma cambia la frase all'ultimo momento. "Lui non lo cacci sotto al tappeto. Non ci sei mai riuscito. Allah mi è testimone, tutte le volte che ho dovuto raccogliere i tuoi cocci per qualcosa che aveva detto o fatto, in tutti questi anni. Ti farà bene stargli lontano. Fidati di me."

Ikraam parla come una cascata in un tentativo sgomento e disperato di sdrammatizzare. Lui non riesce a dire nulla. Annuisce senza sapere a cosa. Cala il silenzio. Lei si versa un altro bicchierino. Lo svuota in un sorso, abbattendo il vetro sul bancone con un colpo deciso. Sbottando qualcosa tra i denti, all'improvviso.

"La prossima volta che ha il coraggio di mettere piede qui dentro, giuro che gli spacco la faccia."

Per la prima volta da almeno venticinque anni, mentre lo dice, ha la voce brusca e maschile di Hassan, non quella seducente e un pò sguaiata di Ikraam.



Wednesday, June 4, 2014

Sadness is revolution

L'appartamento non ha finestre, ha vetrate. E' un cristallo rivolto sullo skyline mozzafiato di Capital City. Brendan non c'è. Non c'è nessuno, se non la voce continua della musica che riempie la casa da ore. E ore. Sul tavolino ci sono i rimasugli di una busta di Blast, un bicchiere di vino. Si inarca sul divano, passandosi una mano tra i capelli, su un paio di occhi gonfi, chiari. I capelli stanno ricrescendo troppo lentamente. Mormora le parole di una canzone fumando, seguendo la voce della cantante, portando la sigaretta alle labbra e prendendo una boccata fonda. Ci sono i mozziconi di molte sigarette fumate durante la notte. Sono sigarette da donna. Se le sente bene tra le dita, cosí sottili e slanciate. Lo fanno sentire bello.
Ne spegne un'altra. Passa più di un'ora prima che riesca a trovare la voglia di alzarsi, raggiungere la doccia. A lui sembrano solo pochi minuti. Ma ne passano almeno venticinque di minuti prima che riesca ad uscire da sotto il getto di acqua calda. Come se tutto si fosse diluito in una lunghissima domenica mattina che dura da almeno 30 ore. Si guarda allo specchio asciugandosi, rigirandosi su se stesso per vedersi da angolazioni diverse. Si avvicina sporgendosi sul lavandino, tirando la pelle sotto gli occhi svogliatamente, cercando di far sparire gli aloni. Rinuncia. Si veste, infilandosi una maglietta di Brendan che gli cade addosso troppo larga e tornando verso il salotto. Su una delle poltrone ci sono ancora le scatole con dentro i vestiti che gli sono stati lasciati da Melanie. Passandoci accanto non le tocca, nemmeno avesse imparato a conviverci in quel silenzio. Si siede di nuovo sul divano. Ci si sdraia. Non è cambiato niente. Le vetrate sono ancora mozzafiato, la casa è ancora vuota. Allunga le dita verso un'altra sigaretta, un dito raccoglie rimasugli di Blast premendo contro il vetro, li succhia prima di mettersi il filtro tra le labbra. Chiude gli occhi, aspettando che gli venga fame. Ci vorrà ancora molto.

Quando si sveglia di nuovo è notte fonda. Di nuovo. Si sfrega gli occhi con un sospiro, rimettendosi seduto. Si trascina in piedi, recuperando il bicchiere vuoto e raggiungendo la cucina. Lo riempie di vino, prima di iniziare a mettere insieme qualcosa da mangiare. Lo fa senza entusiasmo, la musica continua a suonare in sottofondo.

God I'm so crazy, baby, I'm sorry that I'm misbehaving
I'm your little harlot, starlet..

Il suono del coltello sul tagliere è ritmico, flebile. Il tintinnio del piatto e delle posate mentre vengono estratti dal mobile si mescolano ad una canzone che parla di amore, che non sta ascoltando. Si sforza di fare una composizione gradevole, di impiattare con cura, cerca di imitare quello che ha visto fare a Brendan e a Yahn. Apparecchia la tavola per una persona, sedendosi, smuovendo la sedia e posando il bicchiere accanto al piatto. Le dita sfiorano la forchetta, scivolano sul metallo. Prende fiato, raddrizza la schiena, recupera le posate. Prende il primo boccone, lo porta alle labbra. Espira, masticando. Deglutisce. E poi ripete, la linea del collo è elegante, mentre solleva gli occhi in un momento di sforzo che contrasta con un sospiro. Un sorso di vino, un boccone dopo l'altro finisce l'intero piatto. Solo quando ha ingoiato anche l'ultimo boccone di riso si concede di rilassare il corpo all'indietro, contro lo schienale. Porta la mano lungo il collo esile, se lo massaggia. Si sistema un ciuffo di capelli dietro l'orecchio, che sguscia via subito dopo, troppo corto. Scosta la sedia, si solleva in piedi. Mentre cammina, l'espressione si contrae in una piega vacua, dispersa. Si ritrova a camminare verso il bagno con il passo che si fa appena più urgente, il mento rimane alto. Si chiude la porta alle spalle, ci rimane immobile contro, il fiato che gli si addensa in gola mentre combatte. La mandibola si irrigidisce, porta una mano alla bocca, coprendola, tappandola. Fino al momento in cui si arrende, scivola lasciandosi cadere in ginocchio e raggiungendo la tazza, ripiegandocisi sopra. La schiena si inarca mentre tossisce, il bruciore doloroso del vomito gli scuote il ventre. Lacrime secche gli bagnano gli occhi per lo sforzo, che lo lascia ansimante, riverso contro le piastrelle fredde. Si pulisce la bocca con il retro del polso, con una rassegnazione turbata. 

Sunday, May 25, 2014

Forbidden

Andres solleva gli occhi nello specchio rovinato, nella nave che lo riporta fuori da Polaris. L'immagine che gli torna indietro è un volto bianco, stanco. La camicia è sporca di sangue, esce lento ma inesorabile dalla carne aperta sul collo. Il marchio di Santo. Le dita passano piano tra i capelli corti e disordinati. Un nodo gli serra la gola, lo costringe a voltare gli occhi. Non è il dolore fisico, più che sopportabile. Non è la vanità. E' l'umiliazione. La sensazione che a falciargli i capelli e gettarli a terra in segno di disprezzo, a tenerlo fermo scavandogli una lettera nella carne come agli schiavi, non sia stato Santo. Sia stato Lucian, attraverso le mani di Santo.

Mashhad
Cammina lungo il corridoio della Casa di Agatha, le volte alte del soffitto rimandano il colore delle luci calde, fuori la notte calda dell'estate è riempita dagli odori dolci della frutta, dei fiori. Lui tiene lo sguardo dritto davanti a sè. E' giovane. Ha poco più di vent'anni. I capelli morbidi e lucidi gli fluttuano intorno mentre si muove tranquillo ed elegante verso la propria stanza. I suoi, non sono gli unici passi che rimbombano contro il porticato. Un uomo lo segue. Lo conosce di nome, di fama. Il giovane Principe di Mashhad. Lui sa di essere seguito, eppure non si volta. Ha danzato ad una festa, quella notte. Mentre si muoveva, mentre si torceva su se stesso, i loro occhi si sono incrociati per la prima volta. Per qualche ragione, non sono più riusciti a districarli, come se si fossero incastrati a vicenda nella tempesta tumultuosa delle loro anime. Tra le teste, tra i corpi, tra i presenti a quella festa, si sono sempre ritrovati. Incrociati, agganciati. Fino alla fine. Fino a quando il giovane accompagnatore non si è congedato e il giovane avvocato è scivolato fuori dal ricevimento alle sue spalle, come un segugio.
Ora Lucian Farahani cammina dietro di lui, lo segue attraverso i corridoi rimanendogli a dieci metri di distanza, consapevole che lui ne è consapevole. Consapevole che la strada che conduce agli alloggi della Casa l'hanno sbagliata almeno tre volte e che Andres sta semplicemente camminando senza meta, con il passo di chi sa esattamente dove sta andando, per continuare quel gioco. Per continuare quella caccia e quella fuga che non hanno molto di reale, che sono un rituale di seduzione bruciante quanto attento ad occhi indiscreti. E' Andres a interromperlo. In mezzo al porticato est. Senza ragione apparente, si ferma. Non si volta, si ferma e basta. Si lascia raggiungere. Lucian quando lui smette di camminare esita solo un istante, poi prosegue. Lo avvicina. Si muove verso di lui, arrivandogli alle spalle, accostandosi. Si ferma quando è a qualche decina di centimetri da lui ed è come se avesse corso. Andres non si volta, Lucian non può toccarlo per farglielo fare, non certo senza il suo permesso. C'è un muro invisibile tra loro che brucia sotto il calore della voce di Farahani che gli viene lasciata contro il collo, contro l'orecchio, da quella distanza. Con la fretta, la foga e l'urgenza di chi rischia tutto e vuole altrettanto.
"Ti ho guardato per tutta la sera." Sono state le prime parole che Lucian gli ha rivolto. Nella vita. In quel corridoio. Le prime delle molte che si sono scambiati in dieci anni. Mentre le diceva era come se premesse sulle redini, come i cavalli che si impennano nel deserto, dal collo lucido e forte.
"Lo so."
"Ti voglio." Sibilato con la bramosia aristocratica che hanno certi uomini per loro natura, abituati a prendersi ciò che desiderano.
Andres solo a quel punto si era voltato. Gli aveva lasciato colare addosso gli occhi azzurri, liquidi. Le labbra che trattenevano a fatica un sogghigno.
"Allora dimostramelo, Shazade."
Da quel giorno, per mesi, Lucian Farahani usò tutti i mezzi in suo potere, per vincere la più piccola delle sue attenzioni.

Horyzon, 25 Maggio 2516
La stanza di Andres a Capital City è elegante, ordinata. Troppo per non essere impersonale. Ci sono nell'arredamento, nei colori, nei tessuti, i disperati tentativi di imitare Mashhad in una città troppo grigia e troppo fredda per avvicinarsi anche lontanamente alle sue cupole, alla sua bellezza. Andres Norum ha i capelli tenuti all'indietro, schiacciati contro il cranio da del gel che cerca di nascondere la realtà delle cose. Sul retro del collo, esposto, si vede la cicatrice a forma di G che Santo gli ha inciso a forza, solcata dai punti di sutura. Tra le mani, Kamil gli scivola addosso, sibilando e facendo oscillare la testa nera, squamata, nel vuoto. Lo maneggia come se maneggiasse cristallo, non un serpente, con una piega di amore stanco negli occhi blu. Lucian Farahani cammina lungo il corridoio fuori dalla sua stanza, accompagnato da una giovane ragazza della Casa. Dentro di sè, combatte il timore delle conseguenze. Viene annunciato. Viene fatto entrare. La porta viene richiusa alle loro spalle. Andres si volta verso di lui. Lucian lo guarda, la figura snella, stanca, con il serpente tra le mani. Anche il serpente fissa il Console. Negli occhi azzurri del Saint non c'è calore, c'è un silenzio fondo come un pozzo, una formalità inadatta a loro.
"Sono contento che tu abbia fatto un buon viaggio."
Lucian inizia a muoversi verso di lui. Lentamente. Come se temesse la morte.
"Una volta lasciato lo spazioporto di Maracay alle spalle..." Il Console sembra essere sul punto di continuare, ma forse si accorge di quanto siano futili quelle precisazioni. Fa scivolare gli occhi sul serpente nero che si arrampica tra le dita del suo amante, con un brivido, prima che Andres lo faccia scivolare nel cesto tornando a rivolgerglisi.
"Hai visto i miei nuovi bambini?" Un cenno pigro verso i contenitori delle due serpi. 
"Li ho chiamati Ain e Kamil, come i personaggi di quella leggenda di Agatha sul ragazzo che iniziava una nuova civiltà da solo."
Lucian non lo fa finire.
"I'm sorry." Interrompe le parole, lo schiaccia fuori con un mormorio. Sono parole che non ha mai detto prima. Riempiono il silenzio come un colpo di cannone. 
Andres lo guarda avvicinarsi. 
Soffoca dentro di sè un sussulto, un tuffo al cuore che non soffoca la sua indignazione. Ma la sente ribollire nel petto, tramutarsi in una fierezza che ha l'odore del sangue, della foresta e della roccia della sua terra.
Il mento ha un guizzo verso l'alto mentre gli pianta gli occhi addosso.
"You should be." Un mormorio secco come una condanna. La voce, dopo, gli trema di passione cupa, turbata. "In dieci anni non mi sono mai sentito cosí.. usato da te."
Farahani affronta quelle parole come un'esecuzione, come un soldato davanti ad un plotone d'esecuzione, ma privo della stessa sicurezza di aver agito nel migliore dei modi.  "Lo capisco. Non era mia intenzione." Fa un altro passo, lieve, sembra quasi fluttuare verso Andres strisciando la punta dei piedi contro il suolo. Come i penitenti. Inchiodato al suolo dagli occhi azzurri di Norum. "Credo di aver dimenticato il fatto che non abbiamo segreti. Ho infranto un patto. E sono conscio della gravità della cosa.  Ho valutato male la situazione. Non ti ho reso partecipe delle mie supposizioni, pensando di avere il problema sotto controllo. Non è stato così." Ammette duro, irrigidendo la mascella. "Ma non succederà ancora."

Gli occhi di suo padre lo guardano da un giaciglio di pellicce. Lui è avvolto in una pelle di lupo, ha dieci anni, si scalda vicino al fuoco. L'Ouroboros, al suo polso, riluce troppo grande per lui. L'uomo sta intagliando del legno con un pugnale. Si ferma. Inspira, prima di parlare. "Tu porti il sangue di guerrieri, Andres. Non dimenticarlo."

Andres osserva Lucian. Questa volta è lui a muoversi. Arrivandogli di fronte. Passandogli accanto. Poi dietro. Gli sta girando intorno, tenendogli gli occhi fissi addosso. Come un predatore sinuoso, lento. Lucian è un perno intorno a cui gravita. Combatte con la voglia di urlare che gli scuote il petto. La voce è calma, bassa e vibrante. 
"Ne sono sicuro, che non accadrà mai più. Credo che non sia completamente colpa tua, Lucian. Devo aver sbagliato anche io, da qualche parte. Devo averti fatto credere che ti puoi permettere di essere con me quello che sei con gli altri, quando sappiamo benissimo entrambi che non è cosí." Continua a muoversi intorno a lui come i satelliti, la voce si riduce ad un mormorio privato, un sibilo roco, offeso come possono esserlo solo i condottieri. "Io ti conosco come nessun altro, Lucian. Quando è successo che hai creduto che essere un re per gli uomini ti desse il permesso di usarmi come una banale pedina?
Lucian parla in arabo. Parla un arabo antico, mentre gli risponde, annaspa nel deserto del suo disappunto. 
"Non sono neanche più un re per gli uomini, Andres. Non sono neanche più un principe." Shazade. "E' la frustrazione dell'esilio che mi ha fatto agire impazientemente."
Andres si ferma quando gli è di fianco, ne osserva il profilo. Il volto si protende verso di lui, gli lascia addosso un sibilo ben scandito. "Come ti ho rivolto i miei favori per tutta la mia vita, posso allo stesso modo decidere di riprendermeli. E' bene che lo tieni a mente."
"Lo so. Come ti ho già detto. Non prendo la tua lealtà per scontata."
Un istante dopo, Andres gli è di fronte.
Un temporale nei suoi occhi si gonfia come un esercito. Lui, davanti a tutti, solleva la spada, la punta verso l'orizzonte. Un ventre di acqua fredda investe Shazade e lo fa annaspare, annegare. Andres apre la bocca e parla. La sua voce è carica di una passione brutale, che gli scintilla nel petto come tamburi di battaglia.
"Tu smetti di essere re quando smetti di comportarti come tale, Console. Quando inizi a perderti nelle pieghe del tuo stesso ego. Ho sempre pensato che la tua caparbietà ti avrebbe reso la vita difficile, ma quella che rischia di distruggerti è la tua arroganza. Quindi smetti di pensare al luogo che ti hanno precluso, e inizia a pensare alle porte che ti sono state aperte davanti.
Lucian sente bruciare la verità addosso, cerca di negarla con uno sbuffo irrisorio e stizzito, che gli costa caro. Quello che segue, che esce dalla bocca di Andres, è una dichiarazione ferma, calda come gli incendi, gli occhi gli rimangono addosso con una fermezza accecante. 
"Cercherò di convincere la Weyland a far funzionare le loro spie e farmi avere delle informazioni su questo Santo. Quello che ci immaginavamo come un vecchio spietato narcotrafficante è una cosa ben più pericolosa di cosí. E' una puttana gelosa. Che per qualche ragione ti ha preso di mira, e ha consumato il suo desiderio di umiliare me. Da questo momento, Lucian, non è più solo con te che è in guerra. A costo di vedere la sua testa su una picca, voglio mettere bene in chiaro che non sono la tua, di puttana. Non sono la tua tela. Se mi scrivi addosso un messaggio, io mi sento in dovere di scrivere la fine del capitolo."
Lucian non riesce a dire nulla. Di colpo, viene colto da un calore che lo consola. Da una fiamma che da qualche parte gli scioglie il cuore, in una desolazione che è il più dissetante dei ristori. Solo allora ha il coraggio di sollevare gli occhi sui capelli di Andres, u quell'onore reciso a metà. Lo fa con un coraggio che costerebbe la vista a chiunque altro. Dura più di quanto sia permesso, meno di quanto potrebbe fare davvero arrabbiare lo Xinshou. Lentamente l'Agarajil scioglie il nodo delle sue mani, le allunga con lentezza verso la fronte di Andres, come a chiedere tacitamente un suo permesso per accarezzargli le tempie. "Lo dici come se non conoscessi la misura della mia risoluzione."
Andres si sente addosso gli occhi di Lucian. Trema sotto il tocco delle sue dita. Trema perchè i capelli che gli hanno tagliato portavano intrecciati il ricordo delle sue mani, degli ansimi che ci ha lasciato colare dentro troppe volte per ricordarle. Ricordi troppo intimi perchè possano attraversare la mente di chiunque altro che non sia loro due. Ma non gli concede più che qualche breve tocco prima di distogliere il capo, di sottrarsi alle sue dita. "Il mio supporto te lo do perchè credo che tu possa davvero fare del bene al Verse. Perchè credo che sotto il nemico che sei per te stesso a volte, tu abbia davvero le doti per essere il portatore di un cambiamento di cui questo dannato universo ha bisogno. Non per regalarti un nuovo giocattolo." Fissa gli occhi in quelli di Lucian, prima di scandire una messa in guardia che raffredda la stanza.
"Don't you ever dare to betray me again."
Le maniche della tunica di Lucian coprono la pelle che per un solo istante si raggela in un manto d'oca.
L'Agarajil realizza che deve pagare una pena, e quella pena prevede che tutto ciò che ormai dava per garantito, dopo dieci anni, ora dovrà lottare per ottenerlo. Compreso il contatto fisico. Che è come se gli stesse davanti per la prima volta, nei corridoi della Shouye di Mashhad. Quando Andres parla di nuovo, lo fa con la voce bassa che diventa più schiettamente privata. "Mi aspetto che tu mi dimostri che non mi dai per scontato. Faccio chiamare Celia, perchè ti faccia accompagnare all'uscita."

"Ti voglio."
"Allora dimostramelo, Shazade."

Lucian si inchina davanti a lui, in segno di rispetto, poi si allontana come si conviene ad un uomo che si impiega per dimostrarsi degno. Andres rimane da solo. Si sente stanco, fragile, ha voglia di piangere. Viene assalito dal terrore dei mille occhi che lo scruteranno fuori da quella stanza. Il pubblico, la Casa stessa. Occhi che scandaglieranno il suo corpo e lo troveranno mancante. Che additeranno i suoi capelli, che additeranno la cicatrice. Bisbiglieranno. Rideranno della sua ingenuità. Disprezzeranno ciò che vedono. Viene assalito dalla sensazione che il suo corpo sia sempre di più un oggetto, un campo di battaglia, una mangiatoia a cui si nutrono troppe bocche. Troppi sguardi. Cerca il cortex con le dita, cerca Melanie. 

Il tempo è una cosa buffa. Si contrae e si distende, come le scaglie dei rettili.




Tuesday, May 6, 2014

Helm of Awe

Raonoke, 2516

Il pianeta è vergine. Coperto di foreste fertili, che odorano di muschio e terra. Fuori dal confine di Takoma Springs si estendono come un oceano verde. Cosí fitto che i raggi di luce filtrano a fatica tra il fogliame. Disegnano linee luminose dense come fumo. Andres si è svegliato all'alba. Ha dormito poche ore. La camera d'albergo è spartana, accanto a lui il corpo nudo di Farahani giace addormentato in un intreccio possessivo con il suo. Lo tiene fermo anche nel sonno. La notte appena passata è stata una battuta di caccia. Si è lasciato braccare come le cerve, si è lasciato affondare i denti nel collo. Ha lasciato che Lucian lo divorasse come fuoco, che combattesse le sue paure sul suo corpo, nel suo corpo. Lui è il campo di battaglia in cui ha lasciato che il suo re vincesse, fosse padrone e condottiero, dimenticasse il timore.  La notte passata gli ha lasciato addosso un sentimento liquido, misto, che gli scivola nel petto mentre lo guarda dormire. Mentre accarezza lievemente la superficie della sua pelle, seguendo la linea delle spalle. Un languore scivoloso e palpitante, ma anche una sensazione brutale di vuoto che gli riempie il ventre. Una malinconia che somiglia ad un presagio, ad una condanna. Lo guarda dormire, consapevole che Farahani non dorme mai, se non dopo essersi consumato tra le sue braccia. Custodiscono a vicenda i loro segreti. Andres Norum custodisce il sonno del Console, il Console custodisce la sua passione. La fonte tremenda e vibrante delle sue emozioni.
Con un fruscio, senza svegliarlo, scivola fuori dalla presa delle sue braccia, uscendo dal letto come un brandello di tessuto lasciato cadere a terra. Si avvicina alla finestra, gli occhi azzurri si focalizzano sul profilo degli alberi. Oltre le case. Sul profilo della foresta. Rimane un istante immobile, poi si veste. Si rimette la tunica, si rimette i pantaloni. Esce dalla stanza, va a recuperare un pugnale. Una lama di metallo. La va a prendere dai propri bagagli. E' una lama grezza, di quelle adatte a sgozzare le bestie. Se la allaccia alla cintura, lascia la Steakhouse che il sole sta appena sorgendo.

Ansimi.
"Non ti permetterò di avere paura. La paura non è per te. Il mio re non ha paura. Il mio re è un leone. Ora dimostramelo. Dimostrami che sai prenderti ciò che vuoi, ciò che ti appartiene."

Mentre cammina nel bosco gli si gonfia il petto. I capelli sono sciolti sulle spalle, annodati dal vento e dai rami. Mentre si muove tra gli alberi ha la fierezza che si addice a chiunque porti l'Ouroboros. Il suono primordiale della libertà e della forza gli preme nei muscoli lunghi. Per un istante, sente la sferzata di un richiamo. Sente il contatto con gli Antenati premergli addosso. E' conscio del suo scopo, sa di dover fare una cosa prima di pensare a quale strategia sussurrare alle orecchie del re nel mondo degli uomini. Prima, deve contrattare con un mondo diverso. Cammina senza una meta, ma con una meta sicura. Conosce la sua strada senza saperla, lascia che siano gli dei a guidarlo. Senza fretta, con la pazienza assorta degli animali selvatici, fino a che non si trova davanti ad un masso. Una parete di roccia nel fitto del bosco. Il masso ha una forma regolare, torreggia proiettato verso il cielo. Come una spada, una torre. Di fronte al masso, si ferma. Gli occhi rivolti verso la sommità. Si china, raccoglie un sasso chiaro, friabile. Si avvicina alla superficie di roccia, assorto in una decisione tribale. Premendo con le dita, con i muscoli, disegna un simbolo sul masso. Regolare, come un sole fatto da raggi geometrici. Fatto di forconi. Lo fa con grande concentrazione, prima di lasciar cadere il sasso a terra. Poi, si lascia cadere in ginocchio di fronte ad esso. Estrae il coltello dalla cintura, aprendo la mano sinistra e posandoci la lama in mezzo. Richiude la mano, stringendola intorno al pugnale con forza, gli occhi fissi sul simbolo. Il metallo gli penetra a fondo nella carne. Lo fa tremare, le labbra strette, serrate, senza che gli sfugga un gemito. Fiotti di sangue denso gli lasciano la mano, gocciolano sul muschio, sulla tunica, sulle felci. Prende aria, nel momento in cui sfila il coltello in un ultimo affondo dal suono sibilante. La mano è squarciata. Lui la avvicina al masso, ce la appoggia, lascia che il sangue scorra sulla pietra. Quando parla lo fa nella lingua gorgogliante della sua gente.

"Da qui io vi supplico, dei e antenati, di riunirvi di fronte a me. Sono il vostro figlio, il vostro seme, ho una richiesta per voi. Il vostro onore vi costringe a rispettarla. Ho fede nelle vostre vie. Vi offro il sangue in offerta, come simbolo di quello che verrà. Perchè è il mio sangue che vi chiedo di versare. Non il suo. E' la mia vita che vi chiedo di usare per la sua grandezza. Alla vostra grandezza e alla sua grandezza io mi offro, sia la strada in salita, irta di rocce o di pericoli, o in discesa. Egli ha paura della morte. Io non la temo. La mia vita è un'offerta al vostro volere e alla vostra furia. Scatenatela contro i nostri nemici. Fate che io sia l'agnello che verrà sacrificato affinchè il destino si compia come deve compiersi. Ascoltate la mia preghiera."

La fronte la lascia ricadere contro la roccia. Quando la risolleva, ha il volto sporco del proprio sangue. In quell'istante, comprende cosa lo faccia sentire diverso dagli altri. Da Lars. Da Daphne. Da Brendan. Da Capital City. Forse persino da Agatha.
La fonda, violenta vasca della sua dedizione è indipendente dalla sua nozione dei propri scopi. I fragili, costanti momenti in cui sente di essere vuoto, sono gli stessi in cui realizza di essersi votato interamente ad un destino che non conosce interamente, ma che sente come si sentono le vocazioni. Con la stessa viscerale brutalità dell'amore. Senza mai prenderne il nome. Quella che viene dalle terre di pietra e sangue, e che nasconde nel fondo dell'animo, come si nascondono i segreti.
Trascurata.

Friday, April 25, 2014

Il vaso di Pandora

Vassoi d'argento ricoperti di frutta secca. Datteri, mandorle. Dolci al miele, che dame dell'alta società di Agatha raccolgono tra le dita perfette e affondano tra le labbra come baci. Andres Norum cammina in mezzo alla folla con abiti di tessuti pregiati, con bracciali d'oro ai polsi. Il collo lungo si distende sopra le teste, tra i corpi, gli occhi incessanti come quelli delle cerve. Le labbra rimangono piegate in un sorriso falso, imperturbabile, sotto cui nasconde il suono sottile, rovinoso dell'ansia. Un istante e sopra le spalle del fratello del Governatore scorge la figura alta, solida, di Lucian Farahani. Ne scorge il profilo, la mandibola tendersi in un sorriso. Ne vede gli occhi azzurri illuminarsi per qualcosa che gli viene detto. Di fronte a Farahani, c'è una donna. Ha i capelli neri come l'ebano, lunghi e mossi. Gli occhi scuri come le pantere. E' una pittrice, lui la conosce di nome. Viene da una famiglia importante. Andres lo guarda ridere da lontano, bevendo vino invecchiato. Gli ci vuole meno di un istante a capire che è una risata vera, non una di quelle risate di circostanza che gli ha visto sfoggiare innumerevoli volte alle feste. E lei ride con lui. Lui li guarda da lontano, sente una fitta lurida, orrenda, viscerale, salirgli in gola. Il sorriso distaccato che gli adorna le labbra non si spegne, rimane lí di pietra. Freme sotto il peso del dubbio. Si ritrova a deglutire mentre gli occhi gli diventano pesanti come sassi, nella loro azzurra diafana bellezza. Non sbatte nemmeno le palpebre. Lucian Farahani, da laggiù, sposta gli occhi su di lui. Per un lungo istante, i loro sguardi si incrociano attraverso la sala affollata. La risata del Principe di Mashhad si affievolisce, si contrae, viene infettata da una tensione impalpabile mentre torna rivolto verso la sua interlocutrice. Non smette di sorriderle, ma lo fa con meno convinzione.

"Lucian Farahani ha sempre un ottimo gusto. Vale per i cani, per i cavalli, per il vino e per le donne!"

La voce del dottor Bahni, farmacista delle migliori famiglie di Agatha, lo riporta alla realtà come un colpo di tamburo, o come il colpo di un fucile. Gli uomini intorno capiscono subito il riferimento, allungando gli occhi verso la stessa conversazione che stava osservando lui. Ridono, si danno di gomito. Di colpo, gli sembra di stare osservando un branco di porci. Nemmeno ne sentisse il puzzo, la gola gli si stringe. Sente il proprio sorriso diventare sempre meno credibile, premergli sul volto come una smorfia grottesca mentre gli occhi si asciugano in una pozza dura. L'unico che non ride è Clemence Rathod. Vecchio, elegante e ancora bellissimo, Clemence è troppo intelligente per ridere. Allo stesso tempo, conosce gli occhi di Andres troppo bene per non vederli sprofondare in un luogo dove nessuno può raggiungerli. In quel momento, Clemence decide di dire qualcosa con una pacatezza che non lascia spazio a contraddizioni.

"Sposare quella donna, lo aiuterebbe enormemente. Rassicurerebbe la sua posizione politica, che tende ad essere sempre più precaria delle vittorie dei suoi cani."

Cala il silenzio per qualche istante, ma i presenti concordano.

"E insieme stanno molto bene. Anche l'occhio vuole la sua parte."

Bahni d'altro canto ha sempre avuto un occhio estetico per le coppie. Alcuni dei migliori matrimoni, lui li aveva predetti cosí. Rathod, dopo aver lanciato il sasso, lascia che gli altri proseguano il chiacchiericcio che provoca, fissando gli occhi su Andres, che se li sente addosso come montagne. Il cuore, gli è affondato in fondo al ventre. Si dibatte come un pesce che muore, boccheggia. Una consapevolezza soffocante gli scivola nelle ossa. La consapevolezza che le parole di Clemence sono vere. Forse non per questa volta. Lo sono in assoluto. Le parole che Clemence non ha detto ad alta voce, quelle che ha detto solo a lui con gli occhi.
Andres Norum, in quel momento, diventa vecchio.
Antico, come le statue dimenticate.
Il cuore, nel fondo dello stomaco, viene stritolato dall'edera, si riempie di polvere.

"..Chiedo scusa. Non mi sento bene."

Lo mormora sorridendo con una grazia asfissiante, voltandosi sotto ad una manciata di sguardi perplessi.

"Mi pare pallido in effetti. Che gli abbia fatto male il vino?" Bahni, che è più sveglio di quanto voglia far credere questa volta non parla, preferendo annusare il bicchiere da cui Norum stava bevendo. Forse, lo immagina avvelenato. Forse lo ha già visto succedere.
Ma il vino è buono, e Andres cammina a mento alto senza voltarsi indietro. Attraversa la sala senza cercare nessun volto con gli occhi. Attraversa porte.
Attraversa corridoi.
Attraversa giardini abitati da pavoni, circondati da colonne e ricami di pietra.
Attraversa le meraviglie di uno dei palazzi più belli del pianeta.
Li attraversa fino ai propri alloggi. La sua cameriera gli va incontro, stupita di vederlo tornare prima della fine della festa.

"Come mai è di ritorno cosí presto?"
"Sono molto stanco, Nanèe."
"E' molto pallido, devo chiamare il medico?"
"No. Non voglio vedere nessuno. Se qualcuno viene a cercarmi, dí loro di andare via. Dí loro che sto dormendo."
"Anche se viene Mr. Farahani?"

La domanda della povera Nanèe è innocente. Ma Andres si volta verso di lei con gli occhi chiari pieni di pece. Con un rimprovero talmente violento che rasenta il disgusto, lasciandola a bocca aperta, priva di punti di appiglio.

"Sei una sfacciata. Dovrei licenziarti."

Nanèe boccheggia. Indietreggia di un passo.

"Dirò di no anche a lui."

Andres annuisce, si mette a percorrere il corridoio che porta alla sua stanza. Apre le porte pesanti, se le richiude alle spalle. La stanza è vuota, illuminata dalla luce grigia del crepuscolo. Di colpo, persino i colori dei suoi abiti sembrano più spenti. Persino i bracciali in oro, che rilucevano nel ricevimento, sembrano banali pezzi di metallo. Le finestre sono aperte, le persiane di legno verde scuro sono rivolte verso l'interno della stanza da letto come fauci. Le lenzuola sono smosse come dopo una tempesta. Il silenzio ora è assoluto, interrotto solo dalle voci delle rondini fuori nei giardini. Lui avanza, il petto che viene smosso dal respiro mentre si fa via via affannato. Mentre gli diventa faticoso respirare. Le dita si aggrappano alle persiane cariche d'odio, mentre cerca un appoggio. Il ventre si piega in due, come se dovesse vomitare, invece grida, aggrappato alle finestre. Un grido orrendo, sfiancante, che gli gonfia il collo e gli brucia negli occhi. Un grido da bestia. Si spegne nel silenzio da cui è nato.


Fu lui stesso a suggerire a Lucian Farahani le nozze con la ricca pittrice d'ebano, di prendere quantomeno in considerazione l'idea.
Quella fu la prima e l'ultima volta in cui Andres Norum si concesse di lasciare una festa prima che fosse appropriato. O di urlare.