Sunday, June 22, 2014

Windows

Tornato nella stanza lo spettacolo è lo stesso che costella la sua memoria negli ultimi dieci anni. Il letto matrimoniale con le lenzuola di lino fresco, sfatte. Le pale del ventilatore che cercano di regalare una parvenza di frescura all'estate profumata di Masshad. Girano sul soffitto, in un ronzio ritmico e instabile che sembra prendersi gioco di lui. Fuori dalla finestra i minareti delle Moschee gemelle si stagliano nelle prime luci della sera. Si lascia cadere seduto sul letto. Valuta realmente l'idea di pregare. Gli occhi scivolano al rosario islamico che ciondola pigro dal comodino. Una fitta gli attraversa il petto mentre realizza che è il rosario di Lucian. Ha un gesto improvviso. Violento. Il braccio scatta verso le perle, le afferra, in un solo gesto teso, vivido come le corde di violino, si alza in piedi e si torce scagliandolo verso lo specchio della stanza. Un rumore di vetro infranto si contorce nel silenzio della pensione come una cascata di pugnali. In un battito di ciglia, la sua frustrazione si sta sfogando indiscriminatamente contro tutta la stanza. La stessa stanza in cui riecheggiano anni di gemiti, di sorrisi, di fiato soffiato. Di bugie, compromessi. Catene e costrizioni. Di abitudine. Di gelosia soffocata. Le dita arpionano le lenzuola, quando non trovano più nulla da spaccare, le scagliano violentemente giù dalla finestra aperta. Perplesse grida e risate in arabo si sollevano dalla strada sottostante scroscianti, nel vedere il tessuto che svolazza e si abbatte sulle loro teste. Lui non si affaccia per paura di venire visto. In un pudore improvviso che lo ancora con le spalle al muro. Si lascia scivolare contro la parete, per un tempo indefinito non si muove. Ripercorre mentalmente le ore passate nascosto dietro la moschea tra i fiori di ibisco. Le ripercorre un numero indefinito di volte, i confini tra ricordi e fantasia iniziano a confondersi. La voce di Lucian e la sua bocca contro la propria si mescolano al suo inchino formale, poi lentamente diventano un insieme indefinito di immagini. Alcune reali, altre no. Interrompe il silenzio muovendosi con un fruscio, facendo scivolare stancamente la mano sul proprio corpo in una lunga carezza. La lascia finire oltre il bordo dei pantaloni con un sospiro arreso, stanco, che si mescola ad un brivido di piacere. In gola gli monta una tristezza calma, mentre li slaccia.

Dopo un orgasmo e una doccia il crepuscolo è diventato sera. E' diventato notte. Le luci di Masshad risplendono come gioielli. Lui fuma alla finestra in mezzo alla devastazione della camera da letto. Improvvisamente gli è diventata stretta. Si divide tra il bisogno di esplodere e quello più vago di sprofondare. Affondare è diventato un moto cosí costante che inizia a sentirsi prudere addosso un'indefinito bisogno di dibattersi. Di lasciarsi andare. Decide che se dovesse passare altri dieci minuti in quella camera probabilmente perderebbe la testa, si lancerebbe dalla finestra come le lenzuola. Spegne la sigaretta, si alza. Si riveste, senza troppa cura. I capelli castani si sono asciugati all'aria calda della notte. Esce dalla pensione e si spinge a fondo attraverso i vicoli della città. Li conosce come le sue tasche. Cammina con le mani nelle tasche oltre il bazaar, gira dentro, imbocca una via costellata di piccoli locali dove gli uomini e le donne giocano a tabla e fumano. Oltrepassa un paio di locali, fuori i ragazzi e le ragazze ridano, gridano. La vitalità nervosa della città lo inghiotte mentre raggiunge uno dei quartieri più artistici. Tra i molti locali, in uno dei vicoli si trova un bar con un'insegna di neon rosso che recita "Raksit Raksit!". Non è un bar qualsiasi. Ci si infila dentro prendendo aria, riempiendosi i polmoni dell'odore di fumo e liquore dolciastro che impregna le pareti e i tavolini. Filodiffusa, si sente della musica jazz cantata in arabo. Sono classici di Agatha. Da dietro le spalle, sente una voce calda e inconfondibile ripetere le parole della canzone.

".. Oh quanto è bello, quanto è bello il mio amore. Quanto è bello il mio amore, è più bello di un fiore in inverno."

Dita lunghe, delicate e curate gli si infilano sfarfallanti tra i capelli mentre Ikraam gli passa accanto e gli si porta di fronte nella bellezza svolazzante dei suoi vestiti. Il corpo, un pò troppo mascolino per essere quello di una donna, non pare risentire minimamente della forma massiccia, si muove con la dolcezza teatrale di una diva di Cineteatro. Gli strappa un sorriso nostalgico, affettuoso, sentire la zaffata di profumo dolciastro che lei si porta dietro.

"Andres Norum, sei un figlio di puttana. Non ti perdonerei se non fossi tanto bello. Sono mesi e mesi che non ti fai vedere, non ti fai sentire, non chiami. Che c'è, a Capital City non c'avete la rete cortex? o adesso sei troppo importante per i tuoi vecchi amici?"

"Mi dispiace. Ho avuto dei problemi."

"Di alcuni ho letto. Sono contenta che non sei sparito anche tu. A quanto pare Koroleva ha troppa paura di me per torcerti un capello."

La dichiarazione gli strappa una risata che non gli cancella la tristezza dallo sguardo. Si affievolisce. Ikraam diventa improvvisamente seria, pensierosa. Lo studia.

"Siediti. Hai l'aria di qualcuno che ha bisogno di bere. Parecchio."

Di colpo, si rende conto di accogliere quelle parole con un sollievo incommensurabile. Annuisce, si lascia cadere su uno sgabello, davanti al bancone. Ikraam invece ci gira intorno, si porta dietro ad esso e recupera un bicchiere e un paio di bottiglie. Inizia a mescolare uno dei suoi drink, dal contenuto ambiguo. Nessuno fa mai domande.

"Che cosa ti succede?"

Lui apre la bocca per rispondere. Invece poi la richiude. Sente gli occhi riempirsi di lacrime. E' costretto a portare una mano alla bocca, cercare di trattenerle. Scuote la testa, cercando il viso dell'amica. Incontra un paio di occhi troppo truccati, che si piegano in un istante improvviso di realizzazione, di consapevolezza.

"Oh santo cazzo."

Un mormorio. Rimane immobile per diversi lunghi momenti, poi inizia a scuotere lo shaker con tutta la forza massiccia dei bicipiti da uomo, stretta in un Sari rosso fuoco. Finisce la preparazione senza dire nulla, con la fretta di chi improvvisamente ha bisogno di quel drink più di quello che gli sta di fronte. Finisce che ne versa due bicchieri. Uno lo allunga verso Andres, l'altro lo solleva. "Alla goccia." Dichiara, prima di rovesciarselo in gola con un gesto deciso. Lui la imita, piegando il collo lungo all'indietro e bevendolo d'un fiato. Strizza gli occhi sotto il bruciore dell'alcol in gola. Prende aria, spingendo di nuovo il bicchiere verso di lei, implicitamente chiedendo che venga riempito di nuovo. Lei obbedisce, ma gli tiene gli occhi addosso.

"Tesoro, mi dispiace tanto. Ma non è poi una tragedia, no? Insomma. Il mare è pieno di pesci. Pieno di bei ragazzi molto meno ingombranti di lui. Molto più facili da nascondere di quell'uomo. Pieno di amanti che puoi cacciare sotto al tappeto quando ti stufi, quando diventa troppo complicato da gestire. Lu.." Si blocca. Stava per dire un nome, ma cambia la frase all'ultimo momento. "Lui non lo cacci sotto al tappeto. Non ci sei mai riuscito. Allah mi è testimone, tutte le volte che ho dovuto raccogliere i tuoi cocci per qualcosa che aveva detto o fatto, in tutti questi anni. Ti farà bene stargli lontano. Fidati di me."

Ikraam parla come una cascata in un tentativo sgomento e disperato di sdrammatizzare. Lui non riesce a dire nulla. Annuisce senza sapere a cosa. Cala il silenzio. Lei si versa un altro bicchierino. Lo svuota in un sorso, abbattendo il vetro sul bancone con un colpo deciso. Sbottando qualcosa tra i denti, all'improvviso.

"La prossima volta che ha il coraggio di mettere piede qui dentro, giuro che gli spacco la faccia."

Per la prima volta da almeno venticinque anni, mentre lo dice, ha la voce brusca e maschile di Hassan, non quella seducente e un pò sguaiata di Ikraam.



Wednesday, June 4, 2014

Sadness is revolution

L'appartamento non ha finestre, ha vetrate. E' un cristallo rivolto sullo skyline mozzafiato di Capital City. Brendan non c'è. Non c'è nessuno, se non la voce continua della musica che riempie la casa da ore. E ore. Sul tavolino ci sono i rimasugli di una busta di Blast, un bicchiere di vino. Si inarca sul divano, passandosi una mano tra i capelli, su un paio di occhi gonfi, chiari. I capelli stanno ricrescendo troppo lentamente. Mormora le parole di una canzone fumando, seguendo la voce della cantante, portando la sigaretta alle labbra e prendendo una boccata fonda. Ci sono i mozziconi di molte sigarette fumate durante la notte. Sono sigarette da donna. Se le sente bene tra le dita, cosí sottili e slanciate. Lo fanno sentire bello.
Ne spegne un'altra. Passa più di un'ora prima che riesca a trovare la voglia di alzarsi, raggiungere la doccia. A lui sembrano solo pochi minuti. Ma ne passano almeno venticinque di minuti prima che riesca ad uscire da sotto il getto di acqua calda. Come se tutto si fosse diluito in una lunghissima domenica mattina che dura da almeno 30 ore. Si guarda allo specchio asciugandosi, rigirandosi su se stesso per vedersi da angolazioni diverse. Si avvicina sporgendosi sul lavandino, tirando la pelle sotto gli occhi svogliatamente, cercando di far sparire gli aloni. Rinuncia. Si veste, infilandosi una maglietta di Brendan che gli cade addosso troppo larga e tornando verso il salotto. Su una delle poltrone ci sono ancora le scatole con dentro i vestiti che gli sono stati lasciati da Melanie. Passandoci accanto non le tocca, nemmeno avesse imparato a conviverci in quel silenzio. Si siede di nuovo sul divano. Ci si sdraia. Non è cambiato niente. Le vetrate sono ancora mozzafiato, la casa è ancora vuota. Allunga le dita verso un'altra sigaretta, un dito raccoglie rimasugli di Blast premendo contro il vetro, li succhia prima di mettersi il filtro tra le labbra. Chiude gli occhi, aspettando che gli venga fame. Ci vorrà ancora molto.

Quando si sveglia di nuovo è notte fonda. Di nuovo. Si sfrega gli occhi con un sospiro, rimettendosi seduto. Si trascina in piedi, recuperando il bicchiere vuoto e raggiungendo la cucina. Lo riempie di vino, prima di iniziare a mettere insieme qualcosa da mangiare. Lo fa senza entusiasmo, la musica continua a suonare in sottofondo.

God I'm so crazy, baby, I'm sorry that I'm misbehaving
I'm your little harlot, starlet..

Il suono del coltello sul tagliere è ritmico, flebile. Il tintinnio del piatto e delle posate mentre vengono estratti dal mobile si mescolano ad una canzone che parla di amore, che non sta ascoltando. Si sforza di fare una composizione gradevole, di impiattare con cura, cerca di imitare quello che ha visto fare a Brendan e a Yahn. Apparecchia la tavola per una persona, sedendosi, smuovendo la sedia e posando il bicchiere accanto al piatto. Le dita sfiorano la forchetta, scivolano sul metallo. Prende fiato, raddrizza la schiena, recupera le posate. Prende il primo boccone, lo porta alle labbra. Espira, masticando. Deglutisce. E poi ripete, la linea del collo è elegante, mentre solleva gli occhi in un momento di sforzo che contrasta con un sospiro. Un sorso di vino, un boccone dopo l'altro finisce l'intero piatto. Solo quando ha ingoiato anche l'ultimo boccone di riso si concede di rilassare il corpo all'indietro, contro lo schienale. Porta la mano lungo il collo esile, se lo massaggia. Si sistema un ciuffo di capelli dietro l'orecchio, che sguscia via subito dopo, troppo corto. Scosta la sedia, si solleva in piedi. Mentre cammina, l'espressione si contrae in una piega vacua, dispersa. Si ritrova a camminare verso il bagno con il passo che si fa appena più urgente, il mento rimane alto. Si chiude la porta alle spalle, ci rimane immobile contro, il fiato che gli si addensa in gola mentre combatte. La mandibola si irrigidisce, porta una mano alla bocca, coprendola, tappandola. Fino al momento in cui si arrende, scivola lasciandosi cadere in ginocchio e raggiungendo la tazza, ripiegandocisi sopra. La schiena si inarca mentre tossisce, il bruciore doloroso del vomito gli scuote il ventre. Lacrime secche gli bagnano gli occhi per lo sforzo, che lo lascia ansimante, riverso contro le piastrelle fredde. Si pulisce la bocca con il retro del polso, con una rassegnazione turbata.