Ne spegne un'altra. Passa più di un'ora prima che riesca a trovare la voglia di alzarsi, raggiungere la doccia. A lui sembrano solo pochi minuti. Ma ne passano almeno venticinque di minuti prima che riesca ad uscire da sotto il getto di acqua calda. Come se tutto si fosse diluito in una lunghissima domenica mattina che dura da almeno 30 ore. Si guarda allo specchio asciugandosi, rigirandosi su se stesso per vedersi da angolazioni diverse. Si avvicina sporgendosi sul lavandino, tirando la pelle sotto gli occhi svogliatamente, cercando di far sparire gli aloni. Rinuncia. Si veste, infilandosi una maglietta di Brendan che gli cade addosso troppo larga e tornando verso il salotto. Su una delle poltrone ci sono ancora le scatole con dentro i vestiti che gli sono stati lasciati da Melanie. Passandoci accanto non le tocca, nemmeno avesse imparato a conviverci in quel silenzio. Si siede di nuovo sul divano. Ci si sdraia. Non è cambiato niente. Le vetrate sono ancora mozzafiato, la casa è ancora vuota. Allunga le dita verso un'altra sigaretta, un dito raccoglie rimasugli di Blast premendo contro il vetro, li succhia prima di mettersi il filtro tra le labbra. Chiude gli occhi, aspettando che gli venga fame. Ci vorrà ancora molto.
Quando si sveglia di nuovo è notte fonda. Di nuovo. Si sfrega gli occhi con un sospiro, rimettendosi seduto. Si trascina in piedi, recuperando il bicchiere vuoto e raggiungendo la cucina. Lo riempie di vino, prima di iniziare a mettere insieme qualcosa da mangiare. Lo fa senza entusiasmo, la musica continua a suonare in sottofondo.
God I'm so crazy, baby, I'm sorry that I'm misbehaving
I'm your little harlot, starlet..
Il suono del coltello sul tagliere è ritmico, flebile. Il tintinnio del piatto e delle posate mentre vengono estratti dal mobile si mescolano ad una canzone che parla di amore, che non sta ascoltando. Si sforza di fare una composizione gradevole, di impiattare con cura, cerca di imitare quello che ha visto fare a Brendan e a Yahn. Apparecchia la tavola per una persona, sedendosi, smuovendo la sedia e posando il bicchiere accanto al piatto. Le dita sfiorano la forchetta, scivolano sul metallo. Prende fiato, raddrizza la schiena, recupera le posate. Prende il primo boccone, lo porta alle labbra. Espira, masticando. Deglutisce. E poi ripete, la linea del collo è elegante, mentre solleva gli occhi in un momento di sforzo che contrasta con un sospiro. Un sorso di vino, un boccone dopo l'altro finisce l'intero piatto. Solo quando ha ingoiato anche l'ultimo boccone di riso si concede di rilassare il corpo all'indietro, contro lo schienale. Porta la mano lungo il collo esile, se lo massaggia. Si sistema un ciuffo di capelli dietro l'orecchio, che sguscia via subito dopo, troppo corto. Scosta la sedia, si solleva in piedi. Mentre cammina, l'espressione si contrae in una piega vacua, dispersa. Si ritrova a camminare verso il bagno con il passo che si fa appena più urgente, il mento rimane alto. Si chiude la porta alle spalle, ci rimane immobile contro, il fiato che gli si addensa in gola mentre combatte. La mandibola si irrigidisce, porta una mano alla bocca, coprendola, tappandola. Fino al momento in cui si arrende, scivola lasciandosi cadere in ginocchio e raggiungendo la tazza, ripiegandocisi sopra. La schiena si inarca mentre tossisce, il bruciore doloroso del vomito gli scuote il ventre. Lacrime secche gli bagnano gli occhi per lo sforzo, che lo lascia ansimante, riverso contro le piastrelle fredde. Si pulisce la bocca con il retro del polso, con una rassegnazione turbata.
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